I primi abbozzi del Terzo concerto risalgono nel periodo a cavallo tra gli ultimi mesi del XVIII secolo e i primi dell’Ottocento, concluso nel 1802 ed eseguito per la prima volta dall’autore stesso al pianoforte in qualità di compositore virtuoso, nonostante tutto, nell’aprile dell’anno successivo al Theater an der Wien. Accoglienza buona ma non entusiastica per i caratteri sperimentali e innovativi che stimolarono, non necessariamente in accezione negativa, tutt’altro, l’intenso dibattito attivo nei circoli culturali viennesi sui destini e le prospettive della musica, superate le galanterie non più alla moda. Innovazioni marcate cui Beethoven ne era conscio, da preferire quest’ultimo concerto ai due precedenti, come scriverà all’editore Hoffmeister di Lipsia: «Il migliore lo tengo ancora per me, per il prossimo viaggio che farò». Rivoluzioni di concezione e stile presenti tanto nell’orchestrazione quanto nella scrittura pianistica, nell’insieme di nuove prospettive dialogiche da superare passati equilibri e preconcetti compositivi ormai scarni d’effetto, da aprire nuove rese estetiche sui concetti di bello, sublime e caratteristico, ora a confronto con una sensibilità drammatica rinnovata, dove la libera e ineguagliata vena improvvisativa di Beethoven concorre inoltre a nuove apporti alla tecnica pianistica. Anomali ognuno a proprio modo i tre tempi che lo compongono e senza titubanze, già nell’introduzione e nell’ingresso caleidoscopico del pianoforte nell’Allego con brio. Nel Largo, concepito in una tonalità del tutto distante da quella d’impianto e in forma di lied tripartito, così nel brillante finale in Rondò-Allegro che chiude il concerto.
«Lo considera il lavoro più importante che abbia scritto», così l’allievo di Beethoven Ferdinand Ries riferiva nell’ottobre del 1803 all’editore Nikolaus Simrock a proposito della Terza sinfonia, aggiungendo che l’autore avrebbe voluto dedicare l’opera a Bonaparte. Dedica che lo stesso Beethoven cancellò di suo pugno dal frontespizio manoscritto, non appena seppe che Napoleone si era proclamato Imperatore, per comparire nella pubblicazione viennese del 1806 con il titolo Sinfonia eroica e sottotitolo in italiano, con un riferimento generico alla figura mitica di un ideale futuro: Composta per festeggiare il sovvenire di un grande Uomo. Grandi intenzioni per un grande capolavoro, da figurare fino a quel momento la sua composizione di più ampio respiro, toccando altissime punte di magniloquenza, dilatate espressività e durate che per molti all’epoca risultarono sconcertanti. I tessuti musicali che innervano la Terza sinfonia trovano spunto da idee e profili tematici in continua espansione, idee da cui l’autore costruisce in un flusso inesauribile di frasi, armonizzazioni e sviluppi, catene ampliate di unità tematiche, caratterizzate da connessioni e contrasti. Non solo nel primo celebre tempo ma anche nei caratteri dei successivi, come nella Marcia funebre che appare per la prima volta in una sinfonia e che Berlioz definì «un dramma in sé», dove il senso del lutto si mantiene nella purezza e nella nobiltà d’espressione. Così nel grande Scherzo sinfonico, con l’insolita coda a inaugurare una larga fortuna lungo tutto l’Ottocento e indubbiamente nel Finale con due temi solenni, gagliardi e festanti in libera variazione. Come scrive Scott Burnham, con la Terza: «Beethoven supera le pastoie delle convenzioni settecentesche, elevandole al livello dei valori più cari all’uomo occidentale».
Alessio Screm